mercoledì 2 febbraio 2011

Diario - 1 febbraio 2011 - A proposito di lettere

1 febbraio 2011
A proposito di lettere
Ho finito in questi giorni di leggere il corposo volume delle lettere di James Joyce pubblicate in Italia. L’ultima lettera mi ha profondamente commosso. Joyce la scrive il 4 gennaio 1940 al fratello Stanislaus. E’ molto preoccupato per lui che è rimasto a Trieste dopo aver perso il lavoro di insegnante di inglese. Il regime fascista gli aveva imposto di trasferirsi da Trieste, troppo vicina alla frontiera, a Firenze. Così Joyce gli indica alcuni indirizzi di persone che possono essergli utili [1].
La turbamento è stato generato dall’odissea e dal crescendo di emozioni associate agli ultimi mesi della vita dello scrittore. Joyce era finalmente riuscito a raggiungere la Svizzera dopo innumerevoli difficoltà. Terrorizzato dal pericolo incombente aveva ottenuto dal governo di Vichy il visto per lui, la moglie Nora, il figlio Giorgio e il nipote Stephen, e dai tedeschi che gestivano la Francia occupata quello per la figlia Lucia,  ospitate in una casa di cura per malattie mentali in quella zona, perché sofferente di schizofrenia. Aveva fatto un estremo sforzo per ottenere l’autorizzazione per accedere in Svizzera perché le autorità locali esigevano garanzie sulla sua solvibilità. Da ultimo degli amici svizzeri lo aiutarono garantendo per lui. Durante il viaggio, alla frontiera, accadde un altro episodio che attesta le sue traversie e che viene raccontato in una nota a piè di pagina del bel volume:
“Joyce, Nora, Giorgio e il nipotino Stephen partirono alle 2 del mattino del 14 dicembre; alla frontiera la dogana svizzera sequestrò la bicicletta di Stephen perché Joyce non aveva denaro per pagare il dazio. Alle 22 giunsero a Ginevra e la mattina dopo a Losanna. Il 16 Joyce si recò a Courcelles per predisporre il ricovero di Lucia e il 17 ripartirono tutti per Zurigo, dove presero alloggio alla pensione Delphin” [2]
Non nascondo la mia emozione. Joyce aveva una montagna di disgrazie, la figlia soffriva di schizofrenia, il figlio non era riuscito a trovare uno sbocco nella vita, come cantante lirico aveva ricevuto solo dinieghi e poi aveva dovuto subire una lunga e difficile operazione alla gola, la moglie del figlio era impazzita, soffriva di malattia agli occhi, e tuttavia si preoccupava anche dei problemi del fratello.
La fine ormai era vicina. Joyce fu ricoverato l’11 gennaio e operato d’urgenza a causa di un’ulcera duodenale, che probabilmente covava da molti anni. Morì alcuni giorni dopo, il 14 gennaio 1941.
Joyce era schivo, isolato, non cercava la notorietà, aveva dedicato la sua vita alla letteratura. I libri dovevano essere letti, commentati, criticati, solo il libro doveva essere buon viatico e promozione del libro. Quello a cui teneva era la diffusione dei suoi scritti. Così scrisse in una lettera alla sua benefattrice Harriet Shaw Weaver:
“Un altro ‘critico’ americano che voleva intervistarmi (ho rifiutato) mi ha detto di aver letto il libro con grande interesse ma non riusciva a capire cosa c’entrasse Bloom.” [3]
Sempre senza un soldo in tasca, sempre a sollecitare prestiti dai parenti (soprattutto il fratello) e anticipi sui presunti e ipotizzati e augurati diritti di autore scriveva:
 “La mia posizione è farsesca. Picasso che, credo non è più famoso di me, può ricavare 20.000 o 30.000 franchi per poche ore di lavoro. Io non valgo nemmeno un penny per riga e pare che non riesca a vendere un libro così raro come l’edizione dublinese di Gente di Dublino. Naturalmente ho respinto numerose offerte di giri di conferenze in America e ho rifiutato di concedere interviste.” [4]
Una volta invitato a un incontro di scrittori del PEN club a Parigi in suo onore non aveva preso la parola disorientando i presenti), aveva quasi completamente perso la vista. Per lui dovevano parlare i suoi libri, i lettori, i critici. Preferiva una critica sincera e argomentata che il silenzio.
Ma sono l’ironia e l’arguzia, qualunque cosa accadesse, qualunque fosse la situazione contingente a pervadere lo spirito delle sue lettere.
Su Dublino scrive:
“Se hai tempo di scrivermi in seguito sarò certo molto lieto di avere tue notizie e ti risponderò senz’altro: benché a dire il vero, non mi piaccia vedere il timbro postale di Dublino, dato che tutte le buste contengono notizie tristi di morte, povertà o fallimento di qualche genere.” [5]
E anche a proposito di amore odio verso la propria terra:
“Un fatto a proposito di Ulisse (Bloom). Idealizza la sua Itaca (Ci voglio tornare alla vecchia strada di casa, che Dio m’aiuti) ma quando ritorna quel posto gli dà la nausea.” [6]
A proposito di Ulisse scrive:
“Diamine! A parte ciò è una noia dannata. Nessuno di cui parlare di Bloom. Prestati due capitoli a un paio di persone ma ne capiscono tanto quanto dello schieramento parlamentare del mio sedere. Mio fratello ne sa qualcosa, ma lo crede uno scherzo, (…)” [7]
E una volta finito e pubblicato in Francia [8]:
“Mi pare che tu non l’hai finito e Berty[9] neppure ma credo che Nora vi batterà tutti nella gara. E’ arrivata a pagina 27 compresa la copertina.” [10]
Ulisse non veniva pubblicato in Gran Bretagna e America perché considerato osceno:
“ Comunque ha visto che il governo americano ha tolto il bando che proibiva parecchi libri precedenti e posteriori al Boccaccio?” [11]
Sulla stampa e l’interesse su di lui, e non sui suoi lavori, commentava:
“Non so dove i giornali inglesi e americani vadano a prendere i titoli allarmistici che mi riguardano. Non ho mai concesso un’intervista in vita mia e non ricevo giornalisti. Non capisco perché considerino un argomento interessante uno scrittore senza lettori”. [12]  

Ci dimentichiamo sempre di troppe cose. Ci dimentichiamo di tutto. O facciamo finta di ignorarle. Come che ci sono degli uomini che lavorano senza cercare le luci dei riflettori, che sono intelligenti e colti, e ci sono anche oggi, e ci sono qui, ci sono di sicuro, e noi accettiamo che vengano lasciati nell’ombra, accettiamo di dimenticarli, e acconsentiamo che altri osannino dei mestieranti, degli esseri incapaci e patetici, senza vergogna, senza avere il pudore, la forza e l’orgoglio di alzare la voce e dissentire.
Se tutti noi avessimo il coraggio di dire buuuh!, buuuh!, di fronte alle pagliacciate che ci vengono propinate, e alle stupidaggini che ci vengono dette, appena ci vengono dette, e cominciassimo a non dare più retta a tutti questi ciarlatani, solo alla ricerca di benefici personali, se solo avessimo il coraggio di cercare altri percorsi!

Giulio Lapasini


[1]  James Joyce in questa lettera fa i nomi, tra gli altri, del poeta Ezra Pound, che viveva a Rapallo, Carlo Linati, a Milano, Curzio Malaparte e Ettore Settanni a Roma.
[2] James Joyce, Lettere, a cura di Giorgio Melchiori, traduzione di Giuliano Melchiori e di Renato Oliva, Arnoldo Mondadori Editore, 1974.
[3] Lettera del 10 aprile 1922 a Harriet Shaw Weaver in James Joyce, Lettere, come sopra.
[4] Lettera del 14 agosto 1927 a Harriet Shaw Weaver in James Joyce, Lettere, come sopra.
[5] Lettera scritta a Trieste del 9 dicembre 1912 alla signora Murray, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[6] Lettera scritta a Parigi del 10 dicembre 1920 a Frank Budgen, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[7] Lettera scritta a Trieste del 3 gennaio 1920 a Frank Budgen, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[8] Ulisse fu pubblicato in Francia il 22 febbraio 1922 giorno del quarantesimo compleanno di Joyce. In Gran Bretagna fu pubblicato solo nel 1936 a causa di un visto censorio. Il motivo? Così viene riassunto: “Archibald Bodkin, allora pubblico ministero addetto al caso, comunicava al dicastero degli Interni di non avere potuto leggere "per intero" il libro, ma che comunque per emettere il giudizio gli "era bastato il brano compreso tra le pagine 690 e 732". Il funzionario ammetteva di essersi concentrato sul monologo di Molly Bloom, la parte conclusiva del romanzo, quella effettivamente assai scabrosa. "Sudiciume, pura indecenza", annota Bodkin. E spiega di non avere avuto il tempo, nè "più la voglia", di proseguire nella lettura. L'opera gli era sembrata "priva di trama, di storia". Secondo il suo parere, il romanzo "manca anche di una qualsiasi introduzione che possa offrire una chiave di lettura", mentre le "pagine citate sembrano scritte da una rozza donna illetterata"” Corriere della Sera, 16 maggio 1998.
[9] Bernard Murray, figlio della zia di James Joyce, Josephine.
[10] Lettera scritta a Nizza del 10 novembre 1922 alla signora Murray, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[11] Lettera scritta a Parigi del 15 ottobre 1931 a T.S. Eliot, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[12] Lettera scritta a Parigi del 10 novembre 1932 a F.V. Morley, in James Joyce, Lettere, come sopra.

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