lunedì 7 febbraio 2011

Quella partenza impossibile


(Una versione di questo racconto è già stata pubblicata su Il giornalino dei Fioi. Il racconto fa parte della raccolta "L'erba verde sul green")

Ero già stanco quando sono arrivato alla partenza di quella buca. Voglio dire, non ero del tutto sereno. Vuoi per la fatica, non sono certo un atleta (gioco da pensionati!), giocare a golf mi stanca più di quanto non voglia ammetterlo, vuoi per le difficoltà che dovevo aver incontrato lungo il percorso. La sensazione che provavo è quella che fino a quel momento non doveva essere per niente stata una bella giornata per il mio gioco. Colpi brutti, usciti dalla mazza così come erano entrati: tutti storti. Non so. Ero confuso. Di base sono confuso. Nella vita. Inconcludente e incoerente. Un senso, avvertito, non avvertito?, di sconnessione, come di incertezza di essere al mondo. Dubbi sul senso delle cose.
Delle cose?
Bah!
Ero lì. Questo è tutto quello che so. Ero arrivato su quella piazzola di partenza, un tee rialzato, verde d’erba verde. Confuso. Ho già detto che ero confuso? Beh, guardo la buca, verso la bandiera, e cosa vedo? La in fondo un spazio ridotto in cui infilare la palla, come si vede sul tee della diciotto di Augusta, con tutti gli alberi intorno e uno spicchio di cielo. Qui lo spicchio era un solo triangolino azzurro lontano, lontano. Minimo. Piccolo. Irraggiungibile. E poi non c’era tutta la gente che ti fanno sempre vedere alla televisione e che c’è sulla diciotto del Master quando arrivano gli osannati campioni. Quelle due ali di folla attorno, quelle che ti fanno pensare sempre che se. Oddio, uno di quelle star sbaglia un colpo, o fa sockett - non si dice mai sockett in campo perché se poi lo chiami, lui arriva!, - ne ammazza qualcuno. E cosa si può pretendere! Qui di campioni non c’e né. Altro che master, qui ci sono frustrati giocatori della domenica, di quelli che aspettano di giocare per sfogare gli umori dell’intera settimana. Il golf come rivincita? E se qui non ci sono  campioni come si può pretendere che uno riesca a far giungere la palla laggiù centrando quel triangolo?
Va bene. Deve andare bene così. Questa è la storia, il film. Comunque, andiamo avanti. Allora, come si dice, armi in spalle e partiam!
Ma ecco che solo in quel momento – l’ho detto che sono distratto, me ne accorgo anche qui mentre racconto, come se non riuscissi a essere lucido, come se le cose comparissero davanti all’improvviso, e io non fossi neppure capace di ricostruirle?, in quel momento, come se non fossi in grado di andare in un senso unico, come lo sbrigo del tempo, e andassi a ritroso, a cercare, le sensazioni – solo allora, dico, noto la difficoltà maggiore. Fino a quel momento non me n’ero assolutamente accorto. Ma pensa te! Sono proprio svagato. Insomma, mi rendo conto che i due battitori che delimitano l’area di partenza sono così vicini, tanto uno vicino all’altro, meno di un metro, che quasi non ci si può posizionare dentro agli stessi, in piedi, con la mazza in mano! E, incredibile a dirsi, con un albero appena fuori del battitore di sinistra! 
Ma cosa gli è saltato in mente? Chi ha messo questo cazzo di battitori. Siamo alle solite, arrivano qui, li puntano qui e li, senza guardare il disegno della buca, la direzione del tiro, gli avvallamenti del terreno. Saranno stati quelli della commissione sportiva? O gli addetti al campo? Non avevano nessuna voglia. Così accade a volte che ti posizioni e sembra di essere su una gobba, come una duna del deserto con la palla in basso e i piedi in alto, o viceversa; come se quelle strane posizioni, visto che tiri la palla di qua e di la, e lei va dove vuole, impazzita come una storna in cielo, non te le trovi poi in campo, durante il gioco, e allora, almeno in partenza, fammi giocare con i piedi dritti! Fammi giocare!
Ma ora? Non bastano i battitori uno attaccato all’altro, ma quell’albero proprio in mezzo? Fossi almeno mancino, mi metto da quell’altra parte e tiro. Ma da destro? Come faccio da destro?
Cosa fare allora? Provo e riprovo. Non c’è verso. Non riesco a stare dentro. Mi posiziono attaccato all’albero. Abbraccio l’albero. Mi metto storto. Cambio mazza. Ne prendo una più corta. Un ferro invece che un legno. Ma la palla non ci sta’. Provo in tutti i modi. Mi arrabatto. Cingo l’albero. Mi avvolgo attorno. E se tirassi da mancino? Figurarsi! Son così ciompo. Fossi ambidestro. Ce n’è qualcuno. Sì. Non io. No.
Sarebbe stato da spostarli. Non c’era altro da fare. Non mi era venuto in mente prima. Ma si può? Si può spostare i battitori in gara? No. Mi dicono. No. Non si può. I battitori sono il campo. Limite invalicabile. Intoccabile. Invalicabile limite. Interdetto a tutti. Vietato. Non si può spostarli. Achtung!Verbitten!
Uffa! Ci provo ancora. Sopra sotto. Come quando una palla è attaccata all’albero. Come un fungo. Rosso e giallo.
Che situazione! Da ridere! Proprio. Da ridere!
In quel momento si affaccia un dubbio. E se qualche bell’imbusto si è divertito alle nostre spalle?, mie e di quelle di chi vuole giocare a sto’ sport del cazzo! Li ha spostati e poi è scappato? Così, per prenderci in giro. Alla facciaccia… Soltanto un poco. E adesso ci tocca giocare così come li abbiamo trovati. Così come lui li ha messi. Quel padreterno! Ha deciso di comandare lui, qui. E noi dietro. Come delle pecore, beee, beee. Queste sono le regole. Bisogna seguirle. Ah, ah! C’è proprio da ridere!
Ma è impossibile!, mi dico. Che sia proprio così? Un gaudente che ride ancora alle nostre spalle. E’ ancora lì, dietro un albero a ghignare. Come quella volta che in campo hanno portato via un battitore giallo. O quell’altra che hanno portato via addirittura il cartello di legno e lamierino con il disegno della buca. Se lo sono portati a casa! Qualcuno è sceso dall’auto, ha scavalcato la recinzione, è entrato in campo, si è guardato in giro, ha affondato le mani nella terra scura, aveva una picozza? Come ha fatto? Erano in due? Hanno scavato con la pala. Hanno preso legno e lamierino e se ne sono scappati via. Chissà cosa ne hanno fatto? L’hanno messo in giardino, insieme a Biancaneve e i sette nani?
Ero confuso. Perbacco. Che confusione. La testa… Come se non sapessi neppure dov’ero. Come quando non ci si rende conto di essere in un posto piuttosto che in un altro. Appena svegliati, ancora assonnati. O di essere in un’epoca diversa. Indubbiamente confuso. Dovevo capirlo subito che era stata solo una visione. Un abbaglio. Vaneggiamenti. Vedete voi. Non era possibile altrimenti! Chi avrebbe potuto mettere i battitori in quel modo sconclusionato? Chi poteva piantare un albero sul tee?
Da cosa lo avevo capito che si trattava di materia inconcludente, astratta, irrazionale, avvolta attorno al niente? Lo avevo intuito perché era apparso nitido il mio compagno di gioco – e dov’era prima quel mio compagno di gioco?, che non avevo visto, che forse avevo sentito, come un pensiero, come un refuso, che non aveva avuto faccia, che era materia sagomata senza anima – come se fosse comparso all’improvviso dal nulla – e prima no, e non c’erano neppure parole, voci, volti, rughe – che ero solo – da solo a solo – con i miei pensieri, le mie ansie, i respiri che portava il vento – il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me – senza voltarmi, senza segreti – un delirio.
Quel mio compagno di gioco, invece, ora lo rammentavo sul green della buca precedente – un flash back della memoria –immagine definita che ricompariva dal passato come fosse vissuta per la prima volta. Osservava le pendenze con piglio sornione. Il putt pendeva dalla mano oggetto ancora inanimato. Sollevava la palla, la puliva, e ancora guardava un cammino che solo lui vedeva. Che nessun altro poteva immaginare. Forse passava per Damasco. Forse non transitava da nessuna parte. Poi aveva estratto dalla tasca, una tasca dentro un pastrano che conteneva l’intera dispensa, come quella, cos’era, quella di Mulligan in Joyce?, una tazza. Era una di quelle belle tazze grandi per far colazione la mattina, per mettere dentro il latte caldo e tociare i biscotti. L’aveva riempita d’acqua e poi con accortezza l’aveva posata a terra là dove c’era il marchino. Aveva pulito ben bene la palla e l’aveva messa a galleggiare in mezzo all’acqua. Pensa te! Si era leccato i baffi. Avevo scorto in lui un gesto come di contemplazione. Si era messo dietro la palla. Attento. Meditabondo. Quasi assorto. Aveva riguardato le pendenze. Le leggeva. Il futuro era presente. Si era rileccato i baffi. Adesso pareva convinto.
Io? Io ero a bocca aperta. Non era un sogno? Sono a bocca aperta tutt’ora.
Poi il mio strano compagno di gioco con il putt aveva dato un colpetto alla tazza. Come si da un colpetto alla palla quando si è in discesa e si ha paura che scappi via. La tazza si è rovesciata. La palla è uscita dalla tazza accompagnata dall’acqua, circondata dall’acqua. Ballonzolava in mezzo al rivolo sull’erba verde del green. Scivolava come i pensieri quando sono lieti e non incontrano ostacoli. Quando sono lieti non ci sono ostacoli per i pensieri, mi hanno sempre detto. Ha attraversato tutto il green. Poi con l’ultima stilla d’acqua è arrivata alla buca. E’ entrata.
Il mio strano compagno di gioco ha sorriso estasiato.
Con calma ha ripreso la tazza. L’ha riposta nella sua dispensa. Mi ha guardato. Ha abbozzato un’alzata di spalle. E’ così. A volte le cose ti arridono. Semplicemente.
Un sogno, non poteva che essere un sogno! E la presenza di quel mio strano compagno di gioco con il pastrano l’aveva svelato.

(Dicembre 2010)

Giulio Lapasini

(Testo sottoposto alla normativa sul diritto di autore)

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