lunedì 19 settembre 2011

Eva di Giorgio Montefoschi

L'amore oggi. Per molti e' solo possedere, come non ci fossero gli altri, come se gli altri fossero oggetti. In una Roma rarefatta, scandita dal passare del tempo, va in scena un atto di comprensione. Ma non è per tutti. I più sono incapaci di qualsiasi gesto di redenzione.
E' Eva, pubblicato nel 2011 da Rizzoli.
L'autore è Giorgio Montefoschi, romano, vincitore del premio Strega nel 1994 con La casa del padre.
Un ottimo autore.
Copertina di Eva

mercoledì 14 settembre 2011

L’onda dell’incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini

Meraviglioso romanzo di formazione dello scrittore triestino Quarantotto Gambini, pacato e lieve, emozionante e sensuale; la storia dell'iniziazione alla vita e alla sessualità di un ragazzo in una Trieste d'acqua e di mare.
Il libro fu scritto nel 1947 e conserva il sapore di un mondo che non c’è più.
Ma le sensazioni, le emozioni, le paure che racconta ci sono ancora. Probabilmente ci saranno sempre.


lunedì 7 febbraio 2011

Quella partenza impossibile


(Una versione di questo racconto è già stata pubblicata su Il giornalino dei Fioi. Il racconto fa parte della raccolta "L'erba verde sul green")

Ero già stanco quando sono arrivato alla partenza di quella buca. Voglio dire, non ero del tutto sereno. Vuoi per la fatica, non sono certo un atleta (gioco da pensionati!), giocare a golf mi stanca più di quanto non voglia ammetterlo, vuoi per le difficoltà che dovevo aver incontrato lungo il percorso. La sensazione che provavo è quella che fino a quel momento non doveva essere per niente stata una bella giornata per il mio gioco. Colpi brutti, usciti dalla mazza così come erano entrati: tutti storti. Non so. Ero confuso. Di base sono confuso. Nella vita. Inconcludente e incoerente. Un senso, avvertito, non avvertito?, di sconnessione, come di incertezza di essere al mondo. Dubbi sul senso delle cose.
Delle cose?
Bah!
Ero lì. Questo è tutto quello che so. Ero arrivato su quella piazzola di partenza, un tee rialzato, verde d’erba verde. Confuso. Ho già detto che ero confuso? Beh, guardo la buca, verso la bandiera, e cosa vedo? La in fondo un spazio ridotto in cui infilare la palla, come si vede sul tee della diciotto di Augusta, con tutti gli alberi intorno e uno spicchio di cielo. Qui lo spicchio era un solo triangolino azzurro lontano, lontano. Minimo. Piccolo. Irraggiungibile. E poi non c’era tutta la gente che ti fanno sempre vedere alla televisione e che c’è sulla diciotto del Master quando arrivano gli osannati campioni. Quelle due ali di folla attorno, quelle che ti fanno pensare sempre che se. Oddio, uno di quelle star sbaglia un colpo, o fa sockett - non si dice mai sockett in campo perché se poi lo chiami, lui arriva!, - ne ammazza qualcuno. E cosa si può pretendere! Qui di campioni non c’e né. Altro che master, qui ci sono frustrati giocatori della domenica, di quelli che aspettano di giocare per sfogare gli umori dell’intera settimana. Il golf come rivincita? E se qui non ci sono  campioni come si può pretendere che uno riesca a far giungere la palla laggiù centrando quel triangolo?
Va bene. Deve andare bene così. Questa è la storia, il film. Comunque, andiamo avanti. Allora, come si dice, armi in spalle e partiam!
Ma ecco che solo in quel momento – l’ho detto che sono distratto, me ne accorgo anche qui mentre racconto, come se non riuscissi a essere lucido, come se le cose comparissero davanti all’improvviso, e io non fossi neppure capace di ricostruirle?, in quel momento, come se non fossi in grado di andare in un senso unico, come lo sbrigo del tempo, e andassi a ritroso, a cercare, le sensazioni – solo allora, dico, noto la difficoltà maggiore. Fino a quel momento non me n’ero assolutamente accorto. Ma pensa te! Sono proprio svagato. Insomma, mi rendo conto che i due battitori che delimitano l’area di partenza sono così vicini, tanto uno vicino all’altro, meno di un metro, che quasi non ci si può posizionare dentro agli stessi, in piedi, con la mazza in mano! E, incredibile a dirsi, con un albero appena fuori del battitore di sinistra! 
Ma cosa gli è saltato in mente? Chi ha messo questo cazzo di battitori. Siamo alle solite, arrivano qui, li puntano qui e li, senza guardare il disegno della buca, la direzione del tiro, gli avvallamenti del terreno. Saranno stati quelli della commissione sportiva? O gli addetti al campo? Non avevano nessuna voglia. Così accade a volte che ti posizioni e sembra di essere su una gobba, come una duna del deserto con la palla in basso e i piedi in alto, o viceversa; come se quelle strane posizioni, visto che tiri la palla di qua e di la, e lei va dove vuole, impazzita come una storna in cielo, non te le trovi poi in campo, durante il gioco, e allora, almeno in partenza, fammi giocare con i piedi dritti! Fammi giocare!
Ma ora? Non bastano i battitori uno attaccato all’altro, ma quell’albero proprio in mezzo? Fossi almeno mancino, mi metto da quell’altra parte e tiro. Ma da destro? Come faccio da destro?
Cosa fare allora? Provo e riprovo. Non c’è verso. Non riesco a stare dentro. Mi posiziono attaccato all’albero. Abbraccio l’albero. Mi metto storto. Cambio mazza. Ne prendo una più corta. Un ferro invece che un legno. Ma la palla non ci sta’. Provo in tutti i modi. Mi arrabatto. Cingo l’albero. Mi avvolgo attorno. E se tirassi da mancino? Figurarsi! Son così ciompo. Fossi ambidestro. Ce n’è qualcuno. Sì. Non io. No.
Sarebbe stato da spostarli. Non c’era altro da fare. Non mi era venuto in mente prima. Ma si può? Si può spostare i battitori in gara? No. Mi dicono. No. Non si può. I battitori sono il campo. Limite invalicabile. Intoccabile. Invalicabile limite. Interdetto a tutti. Vietato. Non si può spostarli. Achtung!Verbitten!
Uffa! Ci provo ancora. Sopra sotto. Come quando una palla è attaccata all’albero. Come un fungo. Rosso e giallo.
Che situazione! Da ridere! Proprio. Da ridere!
In quel momento si affaccia un dubbio. E se qualche bell’imbusto si è divertito alle nostre spalle?, mie e di quelle di chi vuole giocare a sto’ sport del cazzo! Li ha spostati e poi è scappato? Così, per prenderci in giro. Alla facciaccia… Soltanto un poco. E adesso ci tocca giocare così come li abbiamo trovati. Così come lui li ha messi. Quel padreterno! Ha deciso di comandare lui, qui. E noi dietro. Come delle pecore, beee, beee. Queste sono le regole. Bisogna seguirle. Ah, ah! C’è proprio da ridere!
Ma è impossibile!, mi dico. Che sia proprio così? Un gaudente che ride ancora alle nostre spalle. E’ ancora lì, dietro un albero a ghignare. Come quella volta che in campo hanno portato via un battitore giallo. O quell’altra che hanno portato via addirittura il cartello di legno e lamierino con il disegno della buca. Se lo sono portati a casa! Qualcuno è sceso dall’auto, ha scavalcato la recinzione, è entrato in campo, si è guardato in giro, ha affondato le mani nella terra scura, aveva una picozza? Come ha fatto? Erano in due? Hanno scavato con la pala. Hanno preso legno e lamierino e se ne sono scappati via. Chissà cosa ne hanno fatto? L’hanno messo in giardino, insieme a Biancaneve e i sette nani?
Ero confuso. Perbacco. Che confusione. La testa… Come se non sapessi neppure dov’ero. Come quando non ci si rende conto di essere in un posto piuttosto che in un altro. Appena svegliati, ancora assonnati. O di essere in un’epoca diversa. Indubbiamente confuso. Dovevo capirlo subito che era stata solo una visione. Un abbaglio. Vaneggiamenti. Vedete voi. Non era possibile altrimenti! Chi avrebbe potuto mettere i battitori in quel modo sconclusionato? Chi poteva piantare un albero sul tee?
Da cosa lo avevo capito che si trattava di materia inconcludente, astratta, irrazionale, avvolta attorno al niente? Lo avevo intuito perché era apparso nitido il mio compagno di gioco – e dov’era prima quel mio compagno di gioco?, che non avevo visto, che forse avevo sentito, come un pensiero, come un refuso, che non aveva avuto faccia, che era materia sagomata senza anima – come se fosse comparso all’improvviso dal nulla – e prima no, e non c’erano neppure parole, voci, volti, rughe – che ero solo – da solo a solo – con i miei pensieri, le mie ansie, i respiri che portava il vento – il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me – senza voltarmi, senza segreti – un delirio.
Quel mio compagno di gioco, invece, ora lo rammentavo sul green della buca precedente – un flash back della memoria –immagine definita che ricompariva dal passato come fosse vissuta per la prima volta. Osservava le pendenze con piglio sornione. Il putt pendeva dalla mano oggetto ancora inanimato. Sollevava la palla, la puliva, e ancora guardava un cammino che solo lui vedeva. Che nessun altro poteva immaginare. Forse passava per Damasco. Forse non transitava da nessuna parte. Poi aveva estratto dalla tasca, una tasca dentro un pastrano che conteneva l’intera dispensa, come quella, cos’era, quella di Mulligan in Joyce?, una tazza. Era una di quelle belle tazze grandi per far colazione la mattina, per mettere dentro il latte caldo e tociare i biscotti. L’aveva riempita d’acqua e poi con accortezza l’aveva posata a terra là dove c’era il marchino. Aveva pulito ben bene la palla e l’aveva messa a galleggiare in mezzo all’acqua. Pensa te! Si era leccato i baffi. Avevo scorto in lui un gesto come di contemplazione. Si era messo dietro la palla. Attento. Meditabondo. Quasi assorto. Aveva riguardato le pendenze. Le leggeva. Il futuro era presente. Si era rileccato i baffi. Adesso pareva convinto.
Io? Io ero a bocca aperta. Non era un sogno? Sono a bocca aperta tutt’ora.
Poi il mio strano compagno di gioco con il putt aveva dato un colpetto alla tazza. Come si da un colpetto alla palla quando si è in discesa e si ha paura che scappi via. La tazza si è rovesciata. La palla è uscita dalla tazza accompagnata dall’acqua, circondata dall’acqua. Ballonzolava in mezzo al rivolo sull’erba verde del green. Scivolava come i pensieri quando sono lieti e non incontrano ostacoli. Quando sono lieti non ci sono ostacoli per i pensieri, mi hanno sempre detto. Ha attraversato tutto il green. Poi con l’ultima stilla d’acqua è arrivata alla buca. E’ entrata.
Il mio strano compagno di gioco ha sorriso estasiato.
Con calma ha ripreso la tazza. L’ha riposta nella sua dispensa. Mi ha guardato. Ha abbozzato un’alzata di spalle. E’ così. A volte le cose ti arridono. Semplicemente.
Un sogno, non poteva che essere un sogno! E la presenza di quel mio strano compagno di gioco con il pastrano l’aveva svelato.

(Dicembre 2010)

Giulio Lapasini

(Testo sottoposto alla normativa sul diritto di autore)

mercoledì 2 febbraio 2011

Diario - 1 febbraio 2011 - A proposito di lettere

1 febbraio 2011
A proposito di lettere
Ho finito in questi giorni di leggere il corposo volume delle lettere di James Joyce pubblicate in Italia. L’ultima lettera mi ha profondamente commosso. Joyce la scrive il 4 gennaio 1940 al fratello Stanislaus. E’ molto preoccupato per lui che è rimasto a Trieste dopo aver perso il lavoro di insegnante di inglese. Il regime fascista gli aveva imposto di trasferirsi da Trieste, troppo vicina alla frontiera, a Firenze. Così Joyce gli indica alcuni indirizzi di persone che possono essergli utili [1].
La turbamento è stato generato dall’odissea e dal crescendo di emozioni associate agli ultimi mesi della vita dello scrittore. Joyce era finalmente riuscito a raggiungere la Svizzera dopo innumerevoli difficoltà. Terrorizzato dal pericolo incombente aveva ottenuto dal governo di Vichy il visto per lui, la moglie Nora, il figlio Giorgio e il nipote Stephen, e dai tedeschi che gestivano la Francia occupata quello per la figlia Lucia,  ospitate in una casa di cura per malattie mentali in quella zona, perché sofferente di schizofrenia. Aveva fatto un estremo sforzo per ottenere l’autorizzazione per accedere in Svizzera perché le autorità locali esigevano garanzie sulla sua solvibilità. Da ultimo degli amici svizzeri lo aiutarono garantendo per lui. Durante il viaggio, alla frontiera, accadde un altro episodio che attesta le sue traversie e che viene raccontato in una nota a piè di pagina del bel volume:
“Joyce, Nora, Giorgio e il nipotino Stephen partirono alle 2 del mattino del 14 dicembre; alla frontiera la dogana svizzera sequestrò la bicicletta di Stephen perché Joyce non aveva denaro per pagare il dazio. Alle 22 giunsero a Ginevra e la mattina dopo a Losanna. Il 16 Joyce si recò a Courcelles per predisporre il ricovero di Lucia e il 17 ripartirono tutti per Zurigo, dove presero alloggio alla pensione Delphin” [2]
Non nascondo la mia emozione. Joyce aveva una montagna di disgrazie, la figlia soffriva di schizofrenia, il figlio non era riuscito a trovare uno sbocco nella vita, come cantante lirico aveva ricevuto solo dinieghi e poi aveva dovuto subire una lunga e difficile operazione alla gola, la moglie del figlio era impazzita, soffriva di malattia agli occhi, e tuttavia si preoccupava anche dei problemi del fratello.
La fine ormai era vicina. Joyce fu ricoverato l’11 gennaio e operato d’urgenza a causa di un’ulcera duodenale, che probabilmente covava da molti anni. Morì alcuni giorni dopo, il 14 gennaio 1941.
Joyce era schivo, isolato, non cercava la notorietà, aveva dedicato la sua vita alla letteratura. I libri dovevano essere letti, commentati, criticati, solo il libro doveva essere buon viatico e promozione del libro. Quello a cui teneva era la diffusione dei suoi scritti. Così scrisse in una lettera alla sua benefattrice Harriet Shaw Weaver:
“Un altro ‘critico’ americano che voleva intervistarmi (ho rifiutato) mi ha detto di aver letto il libro con grande interesse ma non riusciva a capire cosa c’entrasse Bloom.” [3]
Sempre senza un soldo in tasca, sempre a sollecitare prestiti dai parenti (soprattutto il fratello) e anticipi sui presunti e ipotizzati e augurati diritti di autore scriveva:
 “La mia posizione è farsesca. Picasso che, credo non è più famoso di me, può ricavare 20.000 o 30.000 franchi per poche ore di lavoro. Io non valgo nemmeno un penny per riga e pare che non riesca a vendere un libro così raro come l’edizione dublinese di Gente di Dublino. Naturalmente ho respinto numerose offerte di giri di conferenze in America e ho rifiutato di concedere interviste.” [4]
Una volta invitato a un incontro di scrittori del PEN club a Parigi in suo onore non aveva preso la parola disorientando i presenti), aveva quasi completamente perso la vista. Per lui dovevano parlare i suoi libri, i lettori, i critici. Preferiva una critica sincera e argomentata che il silenzio.
Ma sono l’ironia e l’arguzia, qualunque cosa accadesse, qualunque fosse la situazione contingente a pervadere lo spirito delle sue lettere.
Su Dublino scrive:
“Se hai tempo di scrivermi in seguito sarò certo molto lieto di avere tue notizie e ti risponderò senz’altro: benché a dire il vero, non mi piaccia vedere il timbro postale di Dublino, dato che tutte le buste contengono notizie tristi di morte, povertà o fallimento di qualche genere.” [5]
E anche a proposito di amore odio verso la propria terra:
“Un fatto a proposito di Ulisse (Bloom). Idealizza la sua Itaca (Ci voglio tornare alla vecchia strada di casa, che Dio m’aiuti) ma quando ritorna quel posto gli dà la nausea.” [6]
A proposito di Ulisse scrive:
“Diamine! A parte ciò è una noia dannata. Nessuno di cui parlare di Bloom. Prestati due capitoli a un paio di persone ma ne capiscono tanto quanto dello schieramento parlamentare del mio sedere. Mio fratello ne sa qualcosa, ma lo crede uno scherzo, (…)” [7]
E una volta finito e pubblicato in Francia [8]:
“Mi pare che tu non l’hai finito e Berty[9] neppure ma credo che Nora vi batterà tutti nella gara. E’ arrivata a pagina 27 compresa la copertina.” [10]
Ulisse non veniva pubblicato in Gran Bretagna e America perché considerato osceno:
“ Comunque ha visto che il governo americano ha tolto il bando che proibiva parecchi libri precedenti e posteriori al Boccaccio?” [11]
Sulla stampa e l’interesse su di lui, e non sui suoi lavori, commentava:
“Non so dove i giornali inglesi e americani vadano a prendere i titoli allarmistici che mi riguardano. Non ho mai concesso un’intervista in vita mia e non ricevo giornalisti. Non capisco perché considerino un argomento interessante uno scrittore senza lettori”. [12]  

Ci dimentichiamo sempre di troppe cose. Ci dimentichiamo di tutto. O facciamo finta di ignorarle. Come che ci sono degli uomini che lavorano senza cercare le luci dei riflettori, che sono intelligenti e colti, e ci sono anche oggi, e ci sono qui, ci sono di sicuro, e noi accettiamo che vengano lasciati nell’ombra, accettiamo di dimenticarli, e acconsentiamo che altri osannino dei mestieranti, degli esseri incapaci e patetici, senza vergogna, senza avere il pudore, la forza e l’orgoglio di alzare la voce e dissentire.
Se tutti noi avessimo il coraggio di dire buuuh!, buuuh!, di fronte alle pagliacciate che ci vengono propinate, e alle stupidaggini che ci vengono dette, appena ci vengono dette, e cominciassimo a non dare più retta a tutti questi ciarlatani, solo alla ricerca di benefici personali, se solo avessimo il coraggio di cercare altri percorsi!

Giulio Lapasini


[1]  James Joyce in questa lettera fa i nomi, tra gli altri, del poeta Ezra Pound, che viveva a Rapallo, Carlo Linati, a Milano, Curzio Malaparte e Ettore Settanni a Roma.
[2] James Joyce, Lettere, a cura di Giorgio Melchiori, traduzione di Giuliano Melchiori e di Renato Oliva, Arnoldo Mondadori Editore, 1974.
[3] Lettera del 10 aprile 1922 a Harriet Shaw Weaver in James Joyce, Lettere, come sopra.
[4] Lettera del 14 agosto 1927 a Harriet Shaw Weaver in James Joyce, Lettere, come sopra.
[5] Lettera scritta a Trieste del 9 dicembre 1912 alla signora Murray, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[6] Lettera scritta a Parigi del 10 dicembre 1920 a Frank Budgen, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[7] Lettera scritta a Trieste del 3 gennaio 1920 a Frank Budgen, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[8] Ulisse fu pubblicato in Francia il 22 febbraio 1922 giorno del quarantesimo compleanno di Joyce. In Gran Bretagna fu pubblicato solo nel 1936 a causa di un visto censorio. Il motivo? Così viene riassunto: “Archibald Bodkin, allora pubblico ministero addetto al caso, comunicava al dicastero degli Interni di non avere potuto leggere "per intero" il libro, ma che comunque per emettere il giudizio gli "era bastato il brano compreso tra le pagine 690 e 732". Il funzionario ammetteva di essersi concentrato sul monologo di Molly Bloom, la parte conclusiva del romanzo, quella effettivamente assai scabrosa. "Sudiciume, pura indecenza", annota Bodkin. E spiega di non avere avuto il tempo, nè "più la voglia", di proseguire nella lettura. L'opera gli era sembrata "priva di trama, di storia". Secondo il suo parere, il romanzo "manca anche di una qualsiasi introduzione che possa offrire una chiave di lettura", mentre le "pagine citate sembrano scritte da una rozza donna illetterata"” Corriere della Sera, 16 maggio 1998.
[9] Bernard Murray, figlio della zia di James Joyce, Josephine.
[10] Lettera scritta a Nizza del 10 novembre 1922 alla signora Murray, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[11] Lettera scritta a Parigi del 15 ottobre 1931 a T.S. Eliot, in James Joyce, Lettere, come sopra.
[12] Lettera scritta a Parigi del 10 novembre 1932 a F.V. Morley, in James Joyce, Lettere, come sopra.

giovedì 20 gennaio 2011

L’amico intravisto


(Una versione di questo racconto è già stata pubblicata su Il mondo del Golf. Il racconto fa parte della raccolta "L'erba verde sul green")

Mauro si stava vestendo.  La luce invadeva lo spogliatoio irrompendo dalla grande finestra alla sua sinistra.  Si era tolto la cravatta, poi la giacca e la camicia a fitte strisce verticali, bianche e di un tenue azzurro. Era quasi inciampato nel togliersi i calzoni del completo blu scuro, e aveva già in mano un paio di lunghi calzoni così leggeri che, quando si indossavano, si poteva sentire traspirare l’aria. Dopo essersi alzato, mentre si infilava nei pantaloni la maglia di cotone bianca con le maniche corte e il colletto floscio, variamente decorata dal nome di diversi sponsor locali, poteva adocchiare quasi tutto il green della buca nove. Era bello poter guardare quel pezzo di campo soleggiato di Lignano e prefigurarsi il godimento che a breve avrebbe provato camminandoci sopra. Avrebbe  tirato il carrello e la sacca, colpito la palla per scagliarla verso l’obiettivo e sarebbe stato talmente felice da non sentire alcuna fatica.
L’erba verde e lucida del campo rifletteva i raggi del sole sul vetro ma, strizzando gli occhi, non gli impediva di distinguere sul green le sagome di quattro giocatori.  Erano tre uomini e una donna. Uno degli uomini stava tenendo la bandiera mentre un altro, da lontano pattava. Anche gli altri due erano ben visibili: uno si stagliava sulla collinetta accanto al green e guardava la traiettoria della palla colpita, mentre la donna, distratta, era intenta a infilare un guanto in una delle borse laterali della sacca da golf.
Sorrise fra sé e sé, perché li aveva riconosciuti. Anche loro, erano appassionati del golf e, appena possibile, correvano al club per disputare una partita. Spesso giocavano insieme. Uno degli uomini e la donna facevano coppia fissa nella vita. L’uomo, che si chiamava Marco, aveva ancora il volto di un ragazzo, non doveva ancora avere raggiunto i quarant’anni, mentre la donna, Rita, ne aveva qualcuno di meno. Erano una di quelle rare coppie entusiaste in eguale misura del golf che non sembrava infastidirsi neppure a praticarlo insieme. Marco aveva modi cortesi e un sorriso rassicurante. La donna, minuta e gentile sembrava sempre annuire quando lui parlava. Mauro li aveva visti più di una volta insieme anche fuori dal campo di golf, a Lignano, lungo il corso, uscire da uno dei loro negozi, probabilmente dopo averne controllato l’andamento.
Il secondo uomo del gruppo era un ragazzo alto e biondo dai modi spigliati. Il suo nome era Roberto. Anche lui non aveva ancora raggiunto i quarant’anni. Aveva un lavoro stagionale a Bibione. Il ristorante era aperto solo durante la stagione estiva. A volte in inverno Roberto scappava via, e una delle fughe lo avevano portato dall’altra parte del mondo in una arroventata località dove aveva scovato una bellissima donna che era divenuta sua moglie.
Da anni circolava la voce che anche a Bibione sarebbe stato costruito un campo da golf. Due campi vicini avrebbero rappresentato una interessante offerta nel settore del turismo sportivo, confrontabile a quella di altri paesi. Ma in Italia i permessi da ottenere e le difficoltà da superare –soprattutto di ordine economico– erano tali che la realizzazione appariva un obiettivo quasi irraggiungibile. Nessuna zona d’Italia poteva neppure pensare di rivaleggiare con gli oltre quaranta campi offerti dal comprensorio turistico di Marbella dove in tutti i periodi dell’anno dagli aerei scendono centinaia di turisti con la sacca, il denaro e la smania di giocare.
Il terzo uomo del gruppo era ormai in pensione. Mauro riconobbe Giovanni chiamato anche Penna Bianca. Il sopranome sicuramente derivava dai capelli completamente bianchi, quasi lucidi, che portava abbastanza corti e che modellava rivolti verso il cielo. Anche le basette e la barba, a volte appariva definito un pizzetto, erano completamenti bianchi.  Indossava sempre gli occhiali, del tipo da sole in estate. Aveva quella forma particolare di due occhiali in uno, e gli era sufficiente alzare la lenti per il sole che  occultavano gli occhiali da vista. Nel volto, e in particolare intorno agli occhi, aveva delle profonde increspature affatto comuni tra chi trascorre molto tempo all’aria aperta. Al collo portava spesso come un fazzoletto variopinto o sciarpe molto colorate.
A Mauro sembrò che Giovanni lo avesse intravisto e gli avesse accennato un gesto di saluto.
Che sagoma! – esclamò tra sé.
Gli venne in mente che durante il buffet di premiazione di una gara nel corso dell’estate precedente la moglie di Mauro aveva fatto i complimenti a Giovanni per il modo in cui era vestito. Amava indossare abiti particolari abbinando colori e modelli eterogenei. Portava calzoni straordinariamente rossi, oppure di uno sgargiante colore arancione, o rosa, o a quadri scozzesi, e poi maglie  anch’esse variopinte, a volte dalla foggia inusuale, e nell’insieme, per la raffinatezza e il gusto che aveva nel comporre gli abbinamenti, si mostrava solare e divertente rivelando di essere un uomo dalla prorompente e gaia personalità.
Giovanni aveva ricambiato quei complimenti. Perché anche la moglie di Mauro dedicava molta cura nella scelta dei vestiti e degli accessori. E avevano scherzato su quella loro divertente ossessione. Se li intendevano e raccontavano. Così Giovanni sorridendole le aveva detto:
La prossima volta che vado in aereo a Parigi ti porto con me! Andiamo insieme. Ti porto a vedere delle belle boutique che conosco, è in rue de Rivoli dove si trova il meglio, vedrai che cose carine ci sono
Raccontava di aver ceduto l’attività ai figli. Era giunto il momento di godersi la vita e che, avendo adesso più tempo a disposizione, era arrivato il momento di divertirsi il più possibile. Poi aveva fatto scivolare nella conversazione le solite battute sul marito, l’avrebbe portata con se solo a patto che Mauro non fosse geloso …
Mauro non aveva potuto non sentire quelle frasi mentre si aggirava insieme agli amici tra le pietanze del buffet. Non avrebbe saputo dire se quell’invito alla moglie di andare a Parigi avrebbe fatto più male al suo cuore o al suo portafoglio, che veniva regolarmente saccheggiato dal desiderio di essere affascinante e al passo con la moda. Ma non poteva che sorridere. Era uno scherzo. Le battute di Giovanni erano sempre spiritose e delicate e nessun uomo di buon senso se la sarebbe mai potuta prendere.
Era a quell’episodio che Mauro stava pensando uscendo dallo spogliatoio, dirigendosi verso il bar. Voleva bere un caffè. Ma era anche certo, che lì avrebbe incontrato qualcuno con cui giocare.
Infatti appoggiato al bancone c’era Renzo, ancora succube di un orzaiolo all’occhio sinistro.
– Hai visto Giovanni? – chiese a Renzo.
Poi spiegò perché lo cercava:
– Sai, Vito si è qualificato per una finale di golf a Torino. E per la stessa finale di sono qualificati anche Giovanni, Roberto e Rita, la ragazza di Marco. Volevo presentare Vito a Giovanni, in modo che se sono d’accordo possano andare a Rorino insieme…
Mauro non disse a Renzo che li aveva visti attraverso le grandi finestre degli spogliatoi sul green della nove. Probabilmente tra qualche istante sarebbero passati per il bar, a mangiare e bere qualcosa, per una sosta tra le prime e le seconde nove buche del percorso. Allora lui stesso avrebbe detto a Giovanni che voleva presentargli.
– Ti divertiresti molto con loro – aveva anticipato a Vito – sono tutti  molto simpatici.
Vito era diventato da poco socio del circolo e quindi non conosceva ancora tutti. Ma il circolo di Lignano era un ambiente sereno nel quale c’era sempre molta disponibilità da parte dei vecchi soci nei confronti dei nuovi giocatori. Giovanni, poi, era, tra tutti, senz’altro uno dei quelli più affabili e cordiali.
Proprio Giovanni a proposito della trasferta di Torino aveva scherzato con Marco.
– Ce la lascerai la tua Rita –aveva detto– le permetterai di venire con noi… con questo gruppo di matti, non te la mangiamo mica!
Ma Marco si era rabbuiato, perché era geloso della sua Rita, e con il suo candore aveva risposto:
– Sì, sì, la lascio venire, ma… a Torino vengo anch’io a accompagnarla.
Mauro non aveva alcun dubbio: quel gruppetto si sarebbe divertito parecchio durante quella trasferta.
Ma inaspettatamente Mauro notò che Renzo lo osservava stupito.
 Oh – disse Renzo – non sai?
 Cosa? – chiese Mauro.
  Non sai cosa è successo… non sai di Giovanni? Non hai letto i giornali? 
– I giornali?
Così Renzo gli raccontò che Giovanni era stato vittima di un incidente. Era andato a cena verso l’interno e stava tornando a Lignano, di sera, quando aveva perso il controllo della sua BMW Z3 e era uscito di strada. Lo avevano trovato privo di vita riverso nell’auto. 
Mauro sulle prime avrebbe voluto dire che non era possibile, ma come?, se lo aveva visto poco prima, la fuori, sul green della nove. Ne era certo! Non poteva che essere lui! Chi se no! Chi altri lì al circolo aveva quei capelli bianchi, il pizzetto bianco, il foulard intorno al collo… Avrebbe voluto dire che non poteva essere vero… era uno scherzo… uno scherzo di quel mattacchione di Giovanni.
No, era vero. Massimo, il barista lo confermò, compunto.
Tramortito dalla notizia si sedette.
Aspettò. Senza sapere che cosa. Come se dovesse arrivare qualcuno.
Ma nessuno arrivò.
Non arrivò Giovanni, come non arrivarono neppure Roberto, o Rita o Marco.
Nessuno andò più a Torino per quella finale. Neppure Vito.
Seduto sul divano di pelle nera Mauro ricordò Giovanni. Era come se quello dal green della nove fosse stato il suo ultimo saluto.

- A Giovanni -

Giulio Lapasini


(Testo sottoposto alla normativa sul diritto di autore)

mercoledì 19 gennaio 2011

I colori del paradiso

(Questo racconto, già pubblicato su Il mondo del Golf, fa parte della raccolta "L'erba verde sul green")

Erano saliti lentamente in automobile lungo le strette curve di montagna come se avessero avuto molto tempo a disposizione, come se, guidando così, compissero un altro atto di ribellione, quasi un modo di uscire dalla consuetudine, con la tentazione, anche, forse, di pensare che nessuno, a parte essi stessi, potesse disapprovare quel comportamento.
Avevano lasciato nel paese alle pendici della montagna le loro occupazioni: il negozio per Michele, la casa e i tre figli, due dei quali ancora piccoli, per Anna. Erano saliti quasi in silenzio, all’apparenza indifferenti allo scorrere del paesaggio, delle indicazioni sul ciglio della strada del numero dei tornanti, delle case e dei fienili, e di ogni altro manufatto umano che, con il passare dei chilometri, divenivano più radi, e all’apparire sempre più frequente dei segni di quella che sarebbe diventata la fitta trama della foresta.
Michele e Anna salivano verso l’altopiano del Cansiglio a mille metri di altezza. Avevano ritagliato nella settimana mezza giornata da passare insieme sul campo da golf. Erano ormai i primi giorni di novembre e il circolo era ufficialmente chiuso. Il golf, un campo di montagna a diciotto buche, era infatti aperto nel periodo tra maggio e ottobre, mentre durante gli altri mesi il freddo pungente, le terribili escursioni termiche e le gelate notturne, e la neve lo destinavano a un uso diverso.
Giunsero sul piano, sbucando dall’intrico della foresta, nell’ampio bacino che caratterizza il Cansiglio e in cui convergono tante depressioni più piccole, in un susseguirsi di doline, inghiottitoi, torbiere e grotte.
Michele e Anna dopo avere parcheggiato scaricarono dall’auto le sacche da golf e i carrelli, cambiarono le scarpe in bilico sulla portiera, e si avviarono verso il campo.
Benché le aste sui green fossero state ormai tolte, l’erba sui fairway e sui green non venisse più tagliata, il piccolo locale di ristoro, con il bar e il ristorante, fosse ormai chiuso, e i locali destinati agli spogliatoi già in corso di trasformazione per il consueto utilizzo invernale, il campo era ancora praticabile.
Era ora di pranzo, e un leggero velo di nuvole oscurava il sole. La temperatura non era mite e per non soffrire il freddo i due avevano indossato dei maglioni di lana.
Dall’alto, di fronte alla club house si godeva di un’ampia vista sulla piana: al Bus della Genziana, un gruppo di mucche si stavano abbeverando. E’ così: talvolta nella doline dopo le piogge si formano dei ristagni d'acqua, le lame, ma mai fiumi o laghi a causa della natura carsica e permeabile del terreno.
Michele e Anna si avviarono alla buca dieci e cominciarono a giocare, tra il verde del campo, il ceruleo del lago artificiale utilizzato per annaffiare il campo, e il marrone, il rosso, l’arancione, il giallo, il bronzo, l’ocra e i tanti diversi colori intensi delle foglie in autunno.
All’improvviso, forse da dietro un albero, sortì fuori Franco, materializzandosi con dei paletti colorati tra le mani: era l’uomo che curava quel lembo di terra, in estate e in inverno. Sul volto, sulle mani, su ogni scampolo di pelle che tra i vestiti si poteva intravedere erano disegnati i segni nitidi della vita vissuta all’aria aperta.
Scambiarono qualche breve parola e un sorriso.
Giocando la dodici sentirono il rumore persistente di un sega elettrica: era un strepito vertiginoso nel silenzio che li circondava. In Cansiglio non manca il silenzio, ma non è un silenzio assoluto, un silenzio senza rumori, e è così distante per converso dal frastuono pieno, indecifrabile della città: è un silenzio impregnato di rumori riconoscibili, concisi, nitidi, brevi, come i gridi degli animali, la poiana, o il falco, o l’aquila, il muggire delle mucche, il nitrire dei cavalli, e i rumori forti di uomini che lavorano nel bosco o nelle cascine, o come lo stridio dei pneumatici di un’auto che passa per la strada.
Alla buca tredici in alto nel cielo osservarono un falco: appariva quasi immobile nell’aria, e quando la corrente lo spostava brevemente, con un leggero battito d’ali si riportava nella posizione iniziale. Osservava attento il terreno sotto di lui finché lo videro gettarsi avidamente su una preda.
Giocando Michele non pensava al negozio, alla contrazione del fatturato, alla magra offerta che aveva ricevuto per venderlo. Anna non pensava alla malattia della madre, ai problemi a scuola del figlio Giacomo, sempre più indisciplinato e aggressivo.
Proseguirono fino alla buca sedici, un par quattro di quasi quattrocento metri con la piazzola di partenza in alto e il primo colpo da tirare dall’alto verso il basso. Laggiù in mezzo al fairway si intravedeva il segno consistente dell’intensa pioggia dei giorni precedenti: un piccolo lago temporaneo e naturale.
Il lato sinistro della buca è occupato dal degradare di una collina, che poi a cento metri dal green si ritira a sinistra così che il campo si apre in un largo spazio. Dopo aver giocato il primo colpo Anna e Michele si diressero ciascuno verso la loro palla. Ma appena incamminati un frastuono inconsueto, come di una mandria di cavalli al galoppo, riempì e oscurò l’aria. Michele e Anna si fermarono attoniti. Dal pendio alla sinistra della buca, fino a un attimo prima nascosto dalla collina, si precipitò su di loro un gruppo formato da una decina di cervi: gli animali correndo all’impazzata li scartarono, trascinati in testa dal capo branco, sfiorandoli di pochi metri. Era accaduto tutto in così poco tempo che sembrava che i cervi non li avessero neppure visti ma addirittura sentiti, e questo fosse stato sufficiente a fare cambiare la traiettoria della loro corsa.
Michele fece solo in tempo a girarsi su se stesso e vederli correre via sul terreno.
Rimasero sbigottiti qualche istante prima di riprendere a giocare. Di fronte a loro si stendeva, appoggiato come in un anfiteatro, una parte del bosco del Cansiglio, costituito sopratutto da faggi, abeti bianchi, qualche abete rosso, larici e betulle. I colori autunnali risplendevano adesso brillanti nel sole trionfante che non era più nascosto da quel velo di nubi che il vento di sud ovest aveva cacciato via.
Dopo aver tirato il primo colpo alla diciassette, un par cinque di cinquecento metri inizialmente in salita, e che superato un dosso, degrada fino a un laghetto posto di fronte al green, si avviarono. Il terreno era morbido sotto i loro piedi, tanto da fare venire voglia di camminare a piedi nudi, e odorava di erba fresca, verde come di smeraldo.
La luce illuminava il cielo di un azzurro intenso mentre poche nuvole, come le ali di un gabbiano, sembravano scivolare via.
Salendo, sfiorando l’erba verde soffice del campo, con di fronte agli occhi il dosso e la vista del cielo e delle nuvole bianche, mano a mano che proseguirono intravidero sempre più distintamente il profilo delle cime delle montagne imbiancate dalle prime nevi.
Fu in quel momento che Michele pensò che se avesse dovuto immaginare il paradiso è così che lo avrebbe concepito: un camminare lento, su una superficie vaporosa, quasi impalpabile, nel verde, nel bianco e nell’azzurro più intensi, vicino alla persona amata, verso il cielo.
Finito di giocare le nove buche si ritrovarono di fronte alla club house. Era ormai ora di tornare a casa. Da lassù diedero un’ultima scorsa al campo. Sulla buca otto altri due giocatori stavano finendo di giocare.
In fondo, verso Valmenera oltre i confini del campo videro un gruppo di mucche ancora al pascolo che venivano richiamate da un malgaro. Lo si sentiva urlare e richiamare gli animali nella stalla aiutato da un cane che gli girava intorno e abbaiava perché ritrovassero la strada.

Giulio Lapasini


(Testo sottoposto alla normativa sul diritto di autore)


Tentativo di scrittura 1

Desiderio di scrivere. Bisogno di scrivere. Una passione che ti perseguita da sempre. Con cui hai convissuto. Che hai rimandato.
Parole che si sono mischiate ai sentimenti e alle emozioni che hanno attraversato la mia vita e che non sono mai state scritte e che, se sono state scritte, non sono mai state lette. 
Poi, un giorno, si decide. Si sceglie di uscire da questo involucro protettivo. Si decide di chiedere se qualcuno ha interesse a leggere quello che hai scritto e che continui a scrivere.
Ecco cos’è il blog Tentativi di scrittura.