mercoledì 19 gennaio 2011

I colori del paradiso

(Questo racconto, già pubblicato su Il mondo del Golf, fa parte della raccolta "L'erba verde sul green")

Erano saliti lentamente in automobile lungo le strette curve di montagna come se avessero avuto molto tempo a disposizione, come se, guidando così, compissero un altro atto di ribellione, quasi un modo di uscire dalla consuetudine, con la tentazione, anche, forse, di pensare che nessuno, a parte essi stessi, potesse disapprovare quel comportamento.
Avevano lasciato nel paese alle pendici della montagna le loro occupazioni: il negozio per Michele, la casa e i tre figli, due dei quali ancora piccoli, per Anna. Erano saliti quasi in silenzio, all’apparenza indifferenti allo scorrere del paesaggio, delle indicazioni sul ciglio della strada del numero dei tornanti, delle case e dei fienili, e di ogni altro manufatto umano che, con il passare dei chilometri, divenivano più radi, e all’apparire sempre più frequente dei segni di quella che sarebbe diventata la fitta trama della foresta.
Michele e Anna salivano verso l’altopiano del Cansiglio a mille metri di altezza. Avevano ritagliato nella settimana mezza giornata da passare insieme sul campo da golf. Erano ormai i primi giorni di novembre e il circolo era ufficialmente chiuso. Il golf, un campo di montagna a diciotto buche, era infatti aperto nel periodo tra maggio e ottobre, mentre durante gli altri mesi il freddo pungente, le terribili escursioni termiche e le gelate notturne, e la neve lo destinavano a un uso diverso.
Giunsero sul piano, sbucando dall’intrico della foresta, nell’ampio bacino che caratterizza il Cansiglio e in cui convergono tante depressioni più piccole, in un susseguirsi di doline, inghiottitoi, torbiere e grotte.
Michele e Anna dopo avere parcheggiato scaricarono dall’auto le sacche da golf e i carrelli, cambiarono le scarpe in bilico sulla portiera, e si avviarono verso il campo.
Benché le aste sui green fossero state ormai tolte, l’erba sui fairway e sui green non venisse più tagliata, il piccolo locale di ristoro, con il bar e il ristorante, fosse ormai chiuso, e i locali destinati agli spogliatoi già in corso di trasformazione per il consueto utilizzo invernale, il campo era ancora praticabile.
Era ora di pranzo, e un leggero velo di nuvole oscurava il sole. La temperatura non era mite e per non soffrire il freddo i due avevano indossato dei maglioni di lana.
Dall’alto, di fronte alla club house si godeva di un’ampia vista sulla piana: al Bus della Genziana, un gruppo di mucche si stavano abbeverando. E’ così: talvolta nella doline dopo le piogge si formano dei ristagni d'acqua, le lame, ma mai fiumi o laghi a causa della natura carsica e permeabile del terreno.
Michele e Anna si avviarono alla buca dieci e cominciarono a giocare, tra il verde del campo, il ceruleo del lago artificiale utilizzato per annaffiare il campo, e il marrone, il rosso, l’arancione, il giallo, il bronzo, l’ocra e i tanti diversi colori intensi delle foglie in autunno.
All’improvviso, forse da dietro un albero, sortì fuori Franco, materializzandosi con dei paletti colorati tra le mani: era l’uomo che curava quel lembo di terra, in estate e in inverno. Sul volto, sulle mani, su ogni scampolo di pelle che tra i vestiti si poteva intravedere erano disegnati i segni nitidi della vita vissuta all’aria aperta.
Scambiarono qualche breve parola e un sorriso.
Giocando la dodici sentirono il rumore persistente di un sega elettrica: era un strepito vertiginoso nel silenzio che li circondava. In Cansiglio non manca il silenzio, ma non è un silenzio assoluto, un silenzio senza rumori, e è così distante per converso dal frastuono pieno, indecifrabile della città: è un silenzio impregnato di rumori riconoscibili, concisi, nitidi, brevi, come i gridi degli animali, la poiana, o il falco, o l’aquila, il muggire delle mucche, il nitrire dei cavalli, e i rumori forti di uomini che lavorano nel bosco o nelle cascine, o come lo stridio dei pneumatici di un’auto che passa per la strada.
Alla buca tredici in alto nel cielo osservarono un falco: appariva quasi immobile nell’aria, e quando la corrente lo spostava brevemente, con un leggero battito d’ali si riportava nella posizione iniziale. Osservava attento il terreno sotto di lui finché lo videro gettarsi avidamente su una preda.
Giocando Michele non pensava al negozio, alla contrazione del fatturato, alla magra offerta che aveva ricevuto per venderlo. Anna non pensava alla malattia della madre, ai problemi a scuola del figlio Giacomo, sempre più indisciplinato e aggressivo.
Proseguirono fino alla buca sedici, un par quattro di quasi quattrocento metri con la piazzola di partenza in alto e il primo colpo da tirare dall’alto verso il basso. Laggiù in mezzo al fairway si intravedeva il segno consistente dell’intensa pioggia dei giorni precedenti: un piccolo lago temporaneo e naturale.
Il lato sinistro della buca è occupato dal degradare di una collina, che poi a cento metri dal green si ritira a sinistra così che il campo si apre in un largo spazio. Dopo aver giocato il primo colpo Anna e Michele si diressero ciascuno verso la loro palla. Ma appena incamminati un frastuono inconsueto, come di una mandria di cavalli al galoppo, riempì e oscurò l’aria. Michele e Anna si fermarono attoniti. Dal pendio alla sinistra della buca, fino a un attimo prima nascosto dalla collina, si precipitò su di loro un gruppo formato da una decina di cervi: gli animali correndo all’impazzata li scartarono, trascinati in testa dal capo branco, sfiorandoli di pochi metri. Era accaduto tutto in così poco tempo che sembrava che i cervi non li avessero neppure visti ma addirittura sentiti, e questo fosse stato sufficiente a fare cambiare la traiettoria della loro corsa.
Michele fece solo in tempo a girarsi su se stesso e vederli correre via sul terreno.
Rimasero sbigottiti qualche istante prima di riprendere a giocare. Di fronte a loro si stendeva, appoggiato come in un anfiteatro, una parte del bosco del Cansiglio, costituito sopratutto da faggi, abeti bianchi, qualche abete rosso, larici e betulle. I colori autunnali risplendevano adesso brillanti nel sole trionfante che non era più nascosto da quel velo di nubi che il vento di sud ovest aveva cacciato via.
Dopo aver tirato il primo colpo alla diciassette, un par cinque di cinquecento metri inizialmente in salita, e che superato un dosso, degrada fino a un laghetto posto di fronte al green, si avviarono. Il terreno era morbido sotto i loro piedi, tanto da fare venire voglia di camminare a piedi nudi, e odorava di erba fresca, verde come di smeraldo.
La luce illuminava il cielo di un azzurro intenso mentre poche nuvole, come le ali di un gabbiano, sembravano scivolare via.
Salendo, sfiorando l’erba verde soffice del campo, con di fronte agli occhi il dosso e la vista del cielo e delle nuvole bianche, mano a mano che proseguirono intravidero sempre più distintamente il profilo delle cime delle montagne imbiancate dalle prime nevi.
Fu in quel momento che Michele pensò che se avesse dovuto immaginare il paradiso è così che lo avrebbe concepito: un camminare lento, su una superficie vaporosa, quasi impalpabile, nel verde, nel bianco e nell’azzurro più intensi, vicino alla persona amata, verso il cielo.
Finito di giocare le nove buche si ritrovarono di fronte alla club house. Era ormai ora di tornare a casa. Da lassù diedero un’ultima scorsa al campo. Sulla buca otto altri due giocatori stavano finendo di giocare.
In fondo, verso Valmenera oltre i confini del campo videro un gruppo di mucche ancora al pascolo che venivano richiamate da un malgaro. Lo si sentiva urlare e richiamare gli animali nella stalla aiutato da un cane che gli girava intorno e abbaiava perché ritrovassero la strada.

Giulio Lapasini


(Testo sottoposto alla normativa sul diritto di autore)


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